Il
28 gennaio partiamo per visitare i campi di Auschwitz e Birkenau. Una volta
arrivati pioveva, nevicava e faceva freddo; alla visione di ciò tutti ci siamo
posti una domanda: “Ma i prigionieri stavano davvero qui al freddo con solo un
pigiama addosso?”. La risposta era facilmente intuibile.
La
prima tappa della visita è stata Auschwitz, il campo con il famoso cancello
nero e la scritta “Arbeit Macht Frai”. Il campo fa un certo effetto: il cancello
e il filo spinato sono rimasti invariati e, complice l’atmosfera, tutto aveva
un’aria triste e lugubre. Molti blocchi all’interno sono allestiti come musei
in cui si possono trovare foto, plastici, cimeli ma soprattutto capelli. La
vista dei capelli non è per niente gradevole; raccolti in mazzetti e ammassati
in una teca lunga almeno 10 metri in una stanza semibuia, mi hanno fatto
rabbrividire. La sala dei forni crematori è stato un colpo allo stomaco: sono
rimasto immobile per qualche secondo immaginando l’azione che veniva svolta
ogni giorno in quella sala. Finita la visita ad Auschwitz, ancora un po’
scioccati, ci avviamo a Birkenau. Il cancello, stavolta costituito da due
grandi porte di legno e ferro, ostruiva la vista e bloccava la ferrovia. Quando
poi il cancello si è stato aperto mi sono reso conto che davanti a noi c’era
un’enorme …niente. Si, niente. Ma è proprio questa la cosa che fa più
riflettere. Tra la neve nemmeno si vedeva la fine della ferrovia e le baracche
erano piccole sagome in lontananza. Tutto era rimasto uguale. E credo che
tutti, davanti a quello scenario, abbiamo pensato che ci saremmo risparmiati
quella visita tetra. Ma poi, difronte alla scritta “Grido di disperazione ed ammonimento all'umanità sia per sempre questo
luogo dove i nazisti uccisero circa un milione e mezzo di uomini, donne e
bambini principalmente ebrei, da vari paesi d’ Europa. ” mi sono reso conto
che il vero motivo del viaggio è
quello di non dimenticare il passato per evitare che si ripeta nel futuro.
Giuseppe
Di Micco, 3E
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