L'ultimo giorno di caccia


Gli Yautja non erano altro che cacciatori  appartenenti alle antiche tribù di un pianeta sconosciuto, in orbita presso i remoti limiti della Galassia di Andromeda. 
In cerca di trofei, viaggiavano nello spazio e nel tempo, fra galassie e sistemi solari, nell’universo conosciuto e in quello ancora inesplorato.
Erano esseri umanoidi alti fino a 2.7 metri, con sangue bioluminescente di colore verde e pelle che ricordava quella dei rettili.
Avevano la capacità di sopravvivere a traumi balistici e dosaggi di radiazioni che risulterebbero mortali per qualsiasi essere umano.
Erano anche fisicamente più forti e resistevano per lunghi periodi in ambienti antartici benché preferissero un clima più caldo. Possedevano capacità metamorfiche che permettevano loro di tramutarsi in una qualunque creatura attraverso il semplice contatto fisico, di assumere una forma incorporea e di mutare colore senza alcuna difficoltà.
Gli Yautja disponevano di un'intelligenza superiore che dava loro non solo la possibilità di effettuare viaggi che nessuno aveva la capacità di compiere ma anche di possedere un proprio avanzatissimo codice di caccia e di onore. Infatti se venivano sconfitti, grazie all'utilizzo di un particolare bracciale, il loro corpo e la loro tecnologia avanzata sparivano in modo da non lasciar traccia del disonore.
Questa razza superiore uccideva esclusivamente per sottostare ad una complessa organizzazione sociale.
I più giovani avevano l'obbligo di partire in missione e di dimostrare ai millenari capi tribù le loro capacità portando indietro un trofeo ad attestazione del superamento del tradizionale rito di iniziazione.
Un giorno però venne commesso un errore.
La destinazione era il sistema solare della stella VY Canis Major, fra le più imponenti della Via Lattea. Una semplice dimenticanza portò all'apertura di un varco spazio-temporale sul pianeta Terra…

Fu il mio l’errore.
Una luce tendente al rosso, che in molti mondi indicava il calar del sole, ed un silenzio mai sperimentato prima di allora accolsero il mio arrivo.
Mi guardai intorno ma non era quello il pianeta che stavo cercando.
Mi incamminai in quel luogo così strano. Non vi era nessuno nonostante la presenza di grandi costruzioni.
Non ero mai approdato su un pianeta simile: grandi abitazioni ma nessun evidente segno di vita.
Il mio scopo era cacciare, ma come potevo farlo senza nessuna preda a disposizione?
Dalla visione a raggi infrarossi si poteva chiaramente vedere l'assenza di forme di vita, se non per le particolari piante che tinteggiavano l’area circostante con varie sfumature di verde.
Le vie erano deserte nonostante il Sole non fosse ancora calato del tutto.  
Pensai che il mio ritorno a casa sarebbe avvenuto molto presto dato che non potevo trarre nessun beneficio dal sostare su quel pianeta.
D’un tratto scorsi da lontano un luogo dove la vita mi pareva particolarmente presente seppur frenetica.
Era un edificio di grandi dimensioni nel quale vi era molta agitazione. Che strano: tutti questi esseri concentrati in unico posto - pensai. Riuscivo a sentire la loro concitazione. Percepivo la loro paura. Sentivo i loro lamenti, il pianto, la disperazione.
Dicevano con voce triste: “Non ce la farà”.
Urlavano che era troppo tardi.
Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo, percepivo però il dolore di un'intera popolazione.
Entrai in quel grande palazzo bianco. Non vi era pace all'interno: chi correva da una parte all'altra vestito di bianco; chi chiedeva solo di essere curato; chi piangeva.
Salii delle scale e raggiunsi in uno strano posto.
C'era un lungo corridoio affiancato da camere. Guardai in una di esse.
Un giovane essere era collegato a strane macchine.
Respirava lentamente. Stava lottando contro qualcosa di molto più forte di lui.
Lottava invano perché quella era una battaglia persa sin dal principio.
Vedevo il suo corpo spegnersi pian piano.
Un ultimo respiro. Un'ultima lacrima. Un ultimo ed unico sguardo di speranza.
Infine tutto cessò.
Quante volte avevo già visto questa scena. Accadeva sempre così in fretta.
La morte non attendeva mai.
Chiusi i suoi occhi ancora pieni di speranza.
Nessuno meritava una fine così indegna.
Mi assalì un pensiero sconcertante: valeva la pena cacciare tra gente già tanto provata?
Compresi così, che da quel luogo infelice non avrei preso trofei ma solo la disperazione di un popolo sterminato.

Ana Maria Socolovschi
Classe 3A



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