La bellezza di un mondo incantato... l’estasi della scoperta… l’emozione dell’incontro con la propria interiorità in un delicato racconto di Beatrice Carugno.


Come al solito ero seduta sul divano a consumare la mia ultima tazza di thè caldo davanti al camino. L’avvento della primavera aveva scacciato il freddo invernale. Ero sola, come sempre d’altronde. I miei genitori erano infatti costantemente impegnati e io mi ritrovavo abitualmente da sola. La casa mi appariva così grande e silenziosa... Ero triste, come al solito, ma quel giorno lo ero in modo particolare.
Decisi di uscire in giardino, così  infilai il giacchetto primaverile tirato fuori da poco per il cambio di stagione. Il mio era un giardino triste, incolto e circondato da un malinconico muro di mattoni grigi. Forse non era stata una buona idea uscire; l’aria fredda deprimeva ancora di più quell’arido cortile che mi trasmetteva un senso di mestizia. Da questo punto di vista eravamo simili noi due: entrambi dimenticati… entrambi soli… entrambi non curati.
Camminai lungo tutto il perimetro del muro accarezzando con la mano i mattoni e il cemento. Avvertivo un freddo fastidioso ma quel gesto era ormai diventato un’abitudine fin da quando ero piccola. Con passi insicuri arrivai fino al retro della casa. Mi accorsi per la prima volta che non avevo mai oltrepassato quel punto. Da che ricordo era sempre stato sbarrato da una catasta di legna da ardere che mio padre raccoglieva nel bosco. Da piccola avevo paura che scavalcandola mi si sarebbe infilata qualche scheggia nelle mani e nelle caviglie. Orami però ero arrivata nella fase dove niente mi faceva più paura. Misi il primo piede su un tronco, poi su un altro e continuai finché non arrivai in cima.
Quello che successe lo potete anche immaginare: il mio Everest di legno era instabile e capitombolai fino al suolo.  Niente di grave. Rimasi sulla terra umida per un po’ finché non decisi di rialzarmi. Scacciai qualche insetto dai pantaloni e mi sgrullai il terriccio dalle braccia. Appena volsi lo sguardo davanti a me, la vidi nascosta. Non so cosa mi spinse ad andare lì ma sentivo che mi stava chiamando.
Incastrata nei mattoni e sepolta dall’edera vi era una porta. La maniglia era ricoperta di muschio dato che la luce non vi batteva fin dai tempi della costruzione della casa. Ora che ci penso faceva tanto freddo. Se l’avessi saputo prima, mi sarei rifugiata lì durante le afose e calde giornate d’estate. Notai che la porta era chiusa a chiave. Nella mia mente non era passata neanche per un secondo l’idea di cercare la chiave. Chissà da quanto quella porta era lì. Per quanto ne avessi saputo, avrebbe potuto anche essersi sgretolata nel tempo.
Nella mia mente, invece, affiorò il pensiero di doverla sfondare. C’erano tanti tronchi non troppo pesanti lì vicino e in quel momento mi serviva qualcosa con cui sfogarmi. Insomma una combinazione perfetta. La porta non oppose la minima resistenza e dopo qualche colpo si aprì rimanendo però attaccata ai cardini. Per non morire ibernata, infilai nuovamente il giacchetto che mi ero tolta per maneggiare il tronco. La spalancai lentamente. Non ci sarebbe di certo potuto essere un leone pronto a sbranarmi, ma un cane pronto a mordermi sì.
Rimasi di stucco. Quel luogo era bellissimo, così bello da non crederci. C’era un altro giardino recintato da un muro, piccolo ma stupendo. Sembrava che lì la primavera si fosse adagiata prima del previsto e che l’inverno avesse deciso di non disturbare. I raggi del sole penetravano delicati scaldando quel piccolo ambiente. Una dolce brezza rendeva l’aria allegra e frizzante. L’erba era molto più rigogliosa di quella nel mio giardino ed era anche più verde. All’angolo vi era una specie di salice dalle foglie viola. Non avevo mai visto un albero del genere. C’era poi un altro albero, un nespolo credo, alla cui base vi era adagiata una pietra dalle sembianze di panchina. Sparse qua e la c’erano aiuole non molto curate ma graziose. Sulla parte in fondo vi era poi un’incisione: “Alla nostra bambina che avrà infine sfondato quella porta e sarà finalmente felice”. Mi misi a ridere con le lacrime che scorrevano sulle guance incurvate. Pensai che si era mantenuto bene per essere stato non curato per così tanti anni.
Con il tempo non smisi mai di andare in quel luogo magico per studiare, leggere o soltanto per sentirmi bene. Non ne feci mai parola con i miei ma credo lo sapessero.

Beatrice Carugno 
 Classe 3A 




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