Come al solito ero
seduta sul divano a consumare la mia ultima tazza di thè caldo davanti al camino.
L’avvento della primavera aveva scacciato il freddo invernale. Ero sola, come
sempre d’altronde. I miei genitori erano infatti costantemente impegnati e io
mi ritrovavo abitualmente da sola. La casa mi appariva così grande e silenziosa...
Ero triste, come al solito, ma quel giorno lo ero in modo particolare.
Decisi di uscire in
giardino, così infilai il giacchetto
primaverile tirato fuori da poco per il cambio di stagione. Il mio era un
giardino triste, incolto e circondato da un malinconico muro di mattoni grigi.
Forse non era stata una buona idea uscire; l’aria fredda deprimeva ancora di
più quell’arido cortile che mi trasmetteva un senso di mestizia. Da questo
punto di vista eravamo simili noi due: entrambi dimenticati… entrambi soli…
entrambi non curati.
Camminai lungo tutto il
perimetro del muro accarezzando con la mano i mattoni e il cemento. Avvertivo
un freddo fastidioso ma quel gesto era ormai diventato un’abitudine fin da
quando ero piccola. Con passi insicuri arrivai fino al retro della casa. Mi
accorsi per la prima volta che non avevo mai oltrepassato quel punto. Da che
ricordo era sempre stato sbarrato da una catasta di legna da ardere che mio
padre raccoglieva nel bosco. Da piccola avevo paura che scavalcandola mi si
sarebbe infilata qualche scheggia nelle mani e nelle caviglie. Orami però ero
arrivata nella fase dove niente mi faceva più paura. Misi il primo piede su un
tronco, poi su un altro e continuai finché non arrivai in cima.
Quello che successe lo
potete anche immaginare: il mio Everest di legno era instabile e capitombolai
fino al suolo. Niente di grave. Rimasi
sulla terra umida per un po’ finché non decisi di rialzarmi. Scacciai qualche
insetto dai pantaloni e mi sgrullai il terriccio dalle braccia. Appena volsi lo
sguardo davanti a me, la vidi nascosta. Non so cosa mi spinse ad andare lì ma
sentivo che mi stava chiamando.
Incastrata nei mattoni
e sepolta dall’edera vi era una porta. La maniglia era ricoperta di muschio
dato che la luce non vi batteva fin dai tempi della costruzione della casa. Ora
che ci penso faceva tanto freddo. Se l’avessi saputo prima, mi sarei rifugiata
lì durante le afose e calde giornate d’estate. Notai che la porta era chiusa a
chiave. Nella mia mente non era passata neanche per un secondo l’idea di
cercare la chiave. Chissà da quanto quella porta era lì. Per quanto ne avessi
saputo, avrebbe potuto anche essersi sgretolata nel tempo.
Nella mia mente,
invece, affiorò il pensiero di doverla sfondare. C’erano tanti tronchi non
troppo pesanti lì vicino e in quel momento mi serviva qualcosa con cui
sfogarmi. Insomma una combinazione perfetta. La porta non oppose la minima
resistenza e dopo qualche colpo si aprì rimanendo però attaccata ai cardini. Per
non morire ibernata, infilai nuovamente il giacchetto che mi ero tolta per
maneggiare il tronco. La spalancai lentamente. Non ci sarebbe di certo potuto
essere un leone pronto a sbranarmi, ma un cane pronto a mordermi sì.
Rimasi di stucco. Quel
luogo era bellissimo, così bello da non crederci. C’era un altro giardino
recintato da un muro, piccolo ma stupendo. Sembrava che lì la primavera si
fosse adagiata prima del previsto e che l’inverno avesse deciso di non
disturbare. I raggi del sole penetravano delicati scaldando quel piccolo
ambiente. Una dolce brezza rendeva l’aria allegra e frizzante. L’erba era molto
più rigogliosa di quella nel mio giardino ed era anche più verde. All’angolo vi
era una specie di salice dalle foglie viola. Non avevo mai visto un albero del
genere. C’era poi un altro albero, un nespolo credo, alla cui base vi era
adagiata una pietra dalle sembianze di panchina. Sparse qua e la c’erano aiuole
non molto curate ma graziose. Sulla parte in fondo vi era poi un’incisione:
“Alla nostra bambina che avrà infine sfondato quella porta e sarà finalmente
felice”. Mi misi a ridere con le lacrime che scorrevano sulle guance incurvate.
Pensai che si era mantenuto bene per essere stato non curato per così tanti
anni.
Con il tempo non smisi
mai di andare in quel luogo magico per studiare, leggere o soltanto per
sentirmi bene. Non ne feci mai parola con i miei ma credo lo sapessero.
Beatrice Carugno
Classe 3A
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